La Ferrari 512S Modulo raccontata da Paolo Martin.
Un mattino di tarda primavera dell'anno 1968 sul mio tecnigrafo giacevano una miriade di oggetti fra cui modelli curvilinee, penne, matite, cicche e posacenere posati a rotazione sul foglio di carta contenente le dimensioni del cruscotto della Rolls Royce Camargue, vettura a cui stavo lavorando.
Quando mi venne in mente un'idea che era latente, a livello inconscio, già da tempo: la Dream Car più pazza del mondo, violenta, unica, inimitabile, concettualmente diversa.
Un rapido schizzo sul lato destro in basso del foglio rappresentante un oggetto speculare e modulare facilmente materializzabile in auto con l'aggiunta delle ruote: era nata la Ferrari MODULO su telaio 512.
Preso da entusiasmo cominciai a dare concretezza a quanto represso nei miei pensieri, sviluppando schizzi più realistici e fattibili in scala 1:10.
Cercai alleati fra i miei superiori e l'allora direttore Franco Martinengo fu entusiasta, ma allo stesso tempo perplesso. Era combattuto fra la normalità che aveva scandito la tranquilla vita della Pininfarina fino ad allora e la voglia di innovazione.
L'ok fu dato quasi di routine dato che al salone qualche cosa bisognava pur mandare, ma comunque con una buona dose di riserva e qualche opzione da parte del presidente.
I miei schizzi un po' troppo futuristici non convincevano più di tanto e si mischiavano con grande contrasto, fra i disegni della Rolls Royce, tanto da sembrare impossibile la convivenza sullo stesso tavolo di idee tanto distanti.
Decisi allora un'azione di forza, ordinai tramite l'ufficio acquisti otto metri cubi di polistirolo, due batterie d'auto, una resistenza elettrica ed essendo oramai prossime le ferie disegnai rapidamente su carta da spolvero i profili principali.
L'azienda chiuse ed io in pantaloni corti e zoccoli, in compagnia saltuaria del guardiano, iniziai un'opera ciclopica. Incollai con la colla di pesce i blocchi di polistirolo e, con un archetto e la resistenza elettrica collegata alle batterie, iniziai l'asportazione di un volume enorme di pallini bianchi.
Mi inventai una megaraspa fatta con un foglio di lamiera forato, con un punzone a punta quadra e, con questa enorme grattugia, asportai materiale per diversi giorni. Materiale in parte disperso nel tragitto officina casa o conservato in maniera clandestina, persino nelle mutande.
Pian piano l'oggetto prendeva forma, per metà nasceva e si materializzava e, verso il 15 di Agosto, era praticamente finito. Ero esausto, stanchissimo, ma felicissimo immaginando la faccia di Sergio Pininfarina e di suo cognato Renzo Carli al loro ritorno.
Non assistetti direttamente allo shock emotivo, ma il risultato fu un KO, con l'oggetto dei desideri repressi finito sotto una coperta in un lato della sala fotografica. Rimuginai per qualche mese continuando a seguire la costruzione di quel mobile di RR che, fra le righe, veniva anche bene e senza intoppi. E' curioso sapere che la R.R. Camargue è stata l’unica vettura della casa disegnata da un italiano.
Una mattina sentii un po' di trambusto al di là dei vetri e Martinengo entrò con un disegno di telaio Ferrari in mano, pregandomi di eseguire le necessarie modifiche per l'adattamento del mucchio di polistirolo alle nuove dimensioni. Era fatta!
Mi rigettai a capofitto nei dettagli, disegnai l'interno, anch'esso modulare. Il Salone era vicino e il tempo stringeva. Un dettaglio importantissimo erano le due grandi sfere poste al lato dei passeggeri con funzioni di aeratore e supporto interruttori. Grosso problema, costruire le sfere! Mah!
Al primo e secondo tentativo l'aspetto era un po' ovoidale e la costernazione imperava. Improvvisamente mi venne un'altra idea, frutto dell'esperienza da trovarobe ufficiale di Michelotti.
Salii in moto con direzione la Sala Bowling, dove corruppi un guardiano perché mi cedesse due palle.
Non immaginereste mai cosa feci per portare a destinazione le medesime con due viaggi: nel primo ero un motociclista incinto e nel secondo ero il gobbo di Notre Dame in moto.
Questa automobile è stata la meno vissuta dal management aziendale nel periodo 67/70 poiché era ritenuta troppo provocante ed il terrore che la stampa ne parlasse male era latente.
Fino all’ultimo l’Ing. Renzo Carli si accanì nella sostituzione del lunotto che, in origine, era composto da una serie di fori da 16 cm. di diametro ricavati dal pannello in lamiera nero, con un vetro tradizionale. Questo succedeva di notte ed io di giorno riposizionavo l’originale.
L'entusiasmo, con i suoi alti e bassi, continuò fino all'alba della partenza. Sull'autocarro si apportarono gli ultimi ritocchi alla vernice e la vettura giunse indenne al Salone di Ginevra.
Dopo la prima esposizione l'oggetto fu digerito, tanto che nelle seguenti mostre fu la principale attrazione.
Fece più volte il giro del mondo, il ritorno di immagine fu enorme, ma la cosa più importante per me è stato un telegramma, che conservo ancora, di Sergio Pininfarina che si complimentava e mi esprimeva le sue scuse.
Mica male no?
Testo di Paolo Martin - ArchivioPrototipi.it
Disegni di Paolo Martin
Image Credit: Pininfarina